La «centrale» del nostro corpo ha una straordinaria capacità di riorganizzarsi, produrre nuove connessioni e anche nuove cellule. Studi recenti su pazienti a cui era stata asportata addirittura metà dell’organo hanno dimostrato che la parte restante è riuscita a riorganizzarsi in modo da garantire una vita normale. Una capacità straordinaria, che si può coltivare

Plasticità cerebrale –  È senz’altro l’esempio più spettacolare della straordinaria plasticità del cervello e della sua capacità di adattarsi e compensare i danni a cui può andare incontro: l’emisferectomia, l’asportazione neurochirurgica di un emisfero cerebrale, metà del cervello. Impensabile per l’altro organo simbolo del corpo umano, il cuore. Invece l’asportazione di metà cervello non solo è compatibile con la vita, ma dà il via nella metà restante a un processo spontaneo di profonda ristrutturazione interna che consente di recuperare gran parte di quelle funzioni che erano svolte dalla metà mancante. L’emisferectomia viene effettuata per gravi disturbi, come certe forme di epilessia intrattabile che scatenano centinaia di attacchi al giorno e che sarebbero incompatibili con la vita ed è sovente praticata in età molto precoce, in modo da contrastare il disturbo prima che arrechi ulteriori danni, ma anche perché il cervello infantile può meglio mettere in campo tutte le potenzialità di recupero permessa dalla plasticità cerebrale.

Se manca metà cervello – Una recente ricerca, pubblicata sulla rivista Cell Reports, ha studiato con la Risonanza Magnetica funzionale (fMR) sei adulti che da piccoli erano stati sottoposti a questo tipo di intervento, comparandoli a soggetti sani, per valutarne le modalità di funzionamento dei network cerebrali. Con grande sorpresa dei ricercatori è emerso che l’emisfero residuo continuava a utilizzare le normali reti di neuroni, i cosiddetti network, ma mostrando al contempo nuove specificità. Ad esempio, le diverse regioni cerebrali responsabili del processamento di informazioni sensomotorie, visive e di attenzione, riuscivano a comunicare in una maniera che nel normale cervello non avviene. Si tratta di un modo per supplire alla mancanza di metà del cervello, fornendo al resto dell’organismo funzioni il più possibile simili a quelle fornite dall’intero organo.

Una vita quasi normale – In molti casi, circa un quarto, il gioco di prestigio dell’emisfero restante funziona così bene che le persone da adulte riescono a vivere una vita pressoché normale, potendo anche lavorare e socializzare senza avere troppe difficoltà. Con metà del proprio cervello. In un’intervista rilasciata al New York Times, Ralph Adolph, neurocognitivista del California Institute of Technology e coautore dello studio, ha dichiarato che ogni volta che osservavano le immagini delle fRM dei pazienti, dicevano: «Ma questo cervello non dovrebbe davvero essere in grado di funzionare. Qualunque altro sistema che ha così tante parti il cui funzionamento dipende l’una dall’altra, come ad esempio il cuore, e lo dividi in due, smette subito di funzionare. Se prendi un laptop e lo dividi in due, smette di servire a qualcosa».

Che il cervello sia un organo capace di modificarsi continuamente a seconda degli stimoli ambientali a cui è esposto o anche delle lesioni che possono colpirlo è una nozione relativamente recente. Infatti, fino agli anni Settanta dello scorso secolo prevaleva l’idea che si trattasse di un organo statico, immutabile una volta raggiunta la maturazione. Che peraltro è un processo estremamente dinamico, se si pensa che alla nascita ogni neurone, la cellula fondamentale della corteccia cerebrale, ha circa 2.500 sinapsi, i punti di contatto e comunicazione tra i neuroni stessi. Un numero destinato a crescere esponenzialmente, fino a circa 15mila sinapsi all’età di tre anni.

La «potatura» dell’adolescenza – Poi attorno all’adolescenza, avviene un fenomeno inaspettato, il cosiddetto pruning, la potatura di una gran quantità di sinapsi, come se il cervello a quel punto si auto-riorganizzasse tagliando connessioni che non sono state sufficientemente sviluppate, dando così maggiore spazio e impulso a quelle più utilizzate. E nel corso della vita resterà attivo il meccanismo dello sviluppo costante delle connessioni sinaptiche più utilizzate, seguendo quelli che man mano sono gli interessi e le abilità che una persona persegue. Chi è consapevole di questa straordinaria capacità che ha nella scatola cranica sa che può e deve continuare a coltivare interessi sempre nuovi e a imparare per tutta la vita.

Giro dentato dell’ippocampo – La neuroplasticità non si limita però alla formazione di nuove sinapsi, da alcuni anni si sta prospettando sempre più chiaramente la possibilità che il cervello sia in grado anche di generare nuovi neuroni, come è indicato da un recente studio pubblicato su Nature Medicine da Elena Moreno Jimenéz e i suoi collaboratori. Sono soprattutto alcune aree cerebrali, soprattutto il cosiddetto giro dentato dell’ippocampo, a essere candidate alla potenzialità di sviluppare nuovi neuroni nel corso dell’intera vita. E dato che l’ippocampo è strettamente correlato a funzioni fondamentali, come l’apprendimento e la memoria, si ritiene che la crescita di nuovi neuroni possa giocare un ruolo importante per il mantenimento e lo sviluppo delle abilità cognitive. Un processo altamente dipendente sia dalle esperienze che ciascuno vive sia, più in generale, dall’ambiente in cui si trova. In altre parole, il nostro cervello si modifica costantemente e in qualche modo noi stessi siamo responsabili delle qualità del cervello che abbiamo. Secondo Tomohisa Toda e Fred Gage del Laboratory of Genetics del Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, in California, autori di un articolo sull’argomento pubblicato sulla rivista Cell and Tissue Research, «sebbene la proporzione di neuroni che si sviluppano nell’adulto sia ridotta rispetto al numero totale di neuroni del giro dentato, la continua aggiunta di nuovi neuroni per tutta la vita – circa 700 al giorno – fa sì che la neurogenesi dell’adulto possa aggiungere una sostanziale plasticità strutturale e funzionale ai circuiti nervosi dell’ippocampo».

Perdita di neuroni e sinapsi – Se la neurogenesi aggiunge neuroni alla corteccia cerebrale, esiste anche il processo inverso, la perdita di neuroni e sinapsi, per invecchiamento, o in conseguenza di specifiche patologie. Come la malattia di Alzheimer, caratterizzata dall’accumulo nelle cellule di fibrille anomale, di una sostanza chiamata beta-amiloide, oltre che da uno stato di infiammazione cerebrale. Attraverso una progressiva distruzione di neuroni e sinapsi conduce a un danno cognitivo e poi alla demenza. Una condizione patologica che purtroppo coinvolge anche la neurogenesi, dato che l’ippocampo smette di generare nuovi neuroni. È proprio su questo aspetto della malattia che si sono concentrati i ricercatori che vorrebbero riattivare la neurogenesi naturale, individuando farmaci in grado di promuoverla anche in chi soffre della malattia di Alzheimer. Una recente ricerca realizzata su un modello animale, pubblicata sulla rivista Science da Se Hoon Choi della Genetics and Aging Research Unit del Massachusetts General Hospital di Charlestown e i suoi collaboratori, ha scoperto nei topi che, quando viene bloccata artificialmente la neurogenesi dell’ippocampo, c’è un peggioramento delle funzioni cognitive.

La neurogenesi dell’adulto – Riattivando la neurogenesi non c’è un recupero di tali abilità finché i topi non sono indotti a svolgere attività fisica, che migliorando le condizioni generali in cui si trovano i neuroni, fanno sì che avvenga il recupero delle abilità cognitive perdute. Sono solo modelli animali, ma sono importanti per capire i meccanismi alla base della malattia di Alzheimer e di altre demenze. E per la ricerca di trattamenti farmacologici che puntano su questi meccanismi. Anche gli equilibri emotivi dipendono in parte dal buon funzionamento della costante produzione di neuroni nel giro dentato dell’ippocampo, essendo in qualche modo correlati funzionalmente al mantenimento di una certa flessibilità cognitiva. È come se, per poter funzionare in maniera adeguata, questa zona del cervello avesse bisogno del costante rifornimento di nuove cellule da mettere al servizio delle reti neuronali da cui dipendono il governo degli stati d’ansia e il tono dell’umore. «La neurogenesi dell’adulto è necessaria anche perché possano manifestarsi alcuni degli effetti benefici degli antidepressivi serotoninergici che agiscono sui recettori 5HT1A» dicono Tomohisa Toda e Fred Gage del Laboratory of Genetics del Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, in California.

 

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