INTRODUZIONE

L’angina refrattaria è definita come una condizione clinica cronica caratterizzata dalla presenza di sintomatologia anginosa debilitante dovuta ad una malattia coronarica ostruttiva grave e/o diffusa, in cui è stata clinicamente accertata la presenza di ischemia miocardica come causa dei sintomi, che non può essere, tuttavia, controllata da terapia medica ottimale e/o dalla rivascolarizzazione coronarica percutanea o chirurgica. Il trattamento di pazienti con angina refrattaria rappresenta, pertanto, una necessità clinica in cardiologia. Infatti, sebbene i numerosi progressi nel trattamento della malattia coronarica abbiano contribuito a prolungare la sopravvivenza dei pazienti con cardiopatia ischemica, un numero sempre più crescente di pazienti è affetto da sintomatologia anginosa refrattaria alla terapia medica ottimale con conseguente importante impatto sulla qualità di vita e ripetute ospedalizzazioni di tali pazienti per angina. Nelle ultime decadi, è stato eseguito un notevole sforzo allo scopo di identificare nuovi trattamenti, farmacologici e non, per il controllo dei sintomi in pazienti con angina refrattaria. Tuttavia, ad oggi, nessuno di questi trattamenti è considerato “standard of care”.

ALTERNATIVE TERAPEUTICHE PER L’ANGINA REFRATTARIA

Negli ultimi anni sono state valutate diverse opzioni terapeutiche per il trattamento dell’angina refrattaria. Tuttavia, sebbene gli studi iniziali mostrassero risultati incoraggianti, trial che comparavano questi trattamenti al placebo hanno dimostrato solo modesti benefici in termini di riduzione dei sintomi e tolleranza allo sforzo e, ad oggi, nessuno di questi trattamenti viene routinariamente utilizzato nella pratica clinica.

LA TEORIA DEL RESTRINGIMENTO DEL SENO CORONARICO

L’idea di considerare il seno coronarico un potenziale target per il trattamento della cardiopatia ischemica risale a più di 60 anni fa. Nel 1955, il cardiochirurgo Claude Beck ha dimostrato in un modello animale come la riduzione chirurgica del diametro del seno coronarico si associasse ad una riduzione dell’area infartuale (da occlusione coronarica). Tale sperimentazione suggeriva che il restringimento del seno coronarico potesse favorire il flusso di sangue ossigenato nelle aree miocardiche più ischemiche, riducendo così l’estensione dell’area infartuale. Oggi, la persistenza di un elevato numero di pazienti affetti da angina refrattaria e l’assenza di altre opzioni terapeutiche hanno riportato, a distanza di numerosi anni, interesse per il seno coronarico nello lo sviluppo di nuove terapie.

REDUCER: DISPOSITIVO E PROCEDURA

Il Reducer è un dispositivo endoluminale a forma di clessidra con marchiatura CE, costituito da uno scaffold in acciaio inossidabile montato su un palloncino espandibile, che viene impiantato per via percutanea nel seno coronarico (Figura 1). Tale dispositivo crea un restringimento del seno coronarico che porta ad un aumento della pressione nel sistema venoso del cuore, così da riprodurre, mediante approccio percutaneo, la procedura introdotta da Beck negli anni ’50. Il dispositivo viene introdotto nel seno coronarico attraverso accesso venoso giugulare. L’impianto viene eseguito sotto guida fluoroscopica attraverso approccio percutaneo dalla vena giugulare interna destra o sinistra, dove viene inserito un introduttore 9 Fr. Un catetere diagnostico 6 Fr (Multipurpose o Amplatz sinistro) viene avanzato sotto guida fluoroscopica in atrio destro, dove viene misurata la pressione. Un’elevata pressione media in atrio destro controindica l’impianto del Reducer in seno coronarico, per evitare il trattamento di pazienti con scompenso cardiaco non controllato, nei quali è consigliabile un’ottimizzazione della terapia medica prima di rivalutare l’indicazione. Una volta incannulato il seno coronarico, il catetere viene avanzato nella parte distale del vaso e viene eseguita un’angiografia allo scopo di valutare le dimensioni del vaso, la presenza di anomalie anatomiche e l’origine dei vasi collaterali. Se le dimensioni del vaso sono compatibili con l’impianto del dispositivo, viene identificata la “landing zone”, ossia il segmento più prossimale del vaso, in modo da eseguire l’impianto prossimalmente all’origine dei vasi collaterali. Talvolta, può non risultare facile incannulare il seno coronarico con questi cateteri e sarà, quindi, necessario utilizzare altri cateteri come il l’Amplatz AL2 o il Josephson.

In seguito, viene fatto avanzare un catetere guida Multipurpose 9 Fr nella parte distale del seno coronarico con il supporto del catetere diagnostico 6 Fr (tecnica “mother-and-child”). Una volta che il catetere guida 9 Fr risulta posizionato più distalmente possibile nel seno coronarico, il catetere diagnostico 6 Fr viene retratto e viene fatto avanzare il Reducer fino al segmento del seno coronarico dove si vuole impiantare il dispositivo. Il catetere guida 9 Fr viene, quindi, retratto in modo da poter esporre il Reducer e procedere al suo impianto mediante gonfiaggio del palloncino su cui è montato. Dopo l’espansione viene recuperato il palloncino con cautela per evitare il dislocamento del Reducer. Un’angiografia finale permette di valutare la corretta posizione del dispositivo e l’assenza di eventuali complicanze. Dopo la procedura tutti i pazienti continuano comunque la terapia medica in atto.

CONCLUSIONI

La terapia medica ottimale e i progressi ottenuti nella rivascolarizzazione coronarica/chirurgica hanno migliorato la sopravvivenza dei pazienti con cardiopatia ischemica, spostando l’attenzione sul controllo dei loro sintomi e sul miglioramento della qualità di vita. Sebbene ad oggi l’impianto del Reducer in seno coronarico sia supportato solo da pochi studi clinici, con scarso “sample size”, ed assenza di dati sul follow-up a lungo termine, tale dispositivo rappresenta una strategia terapeutica promettente in pazienti con angina. Studi futuri saranno indispensabili per comprendere in modo più chiaro, in primo luogo, il meccanismo al quale è legato il suo beneficio nella riduzione dei sintomi, in secondo luogo se questo beneficio sintomatologico possa anche associarsi alla riduzione oggettiva dell’ischemia miocardica e se, infine, tali risultati possano mantenersi nel tempo.

 

FONTE:

 

 

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